lunedì 27 settembre 2010

...E la Borsa se ne va. Il delisting dilaga! (Segue da post precedente)

  
Carmine Covino (PS Consulting) / CC BY-ND 3.0 


"L’ultimo secolo sta alla storia dell’uomo come gli ultimi dieci anni di mercato stanno alla storia di Piazza Affari". 
Questa forse l’epigrafe che più si addice al primo decennio di borsa del nuovo millennio per la straordinaria intensità che ne ha contraddistinto il passo rispetto al passato, e per l’incredibile quantità di eventi che si sono vorticosamente succeduti. Ovvero:
Siamo passati dal picco della bolla tecnologica del marzo del duemila, alla catastrofe del sistema finanziario dell’anno scorso; l’euforia e la paura si sono passate il testimone con un ritmo incessante. Come spiegare una Seat che è arrivata a capitalizzare oltre 34 miliardi di euro, ovvero circa 70.000 miliardi delle vecchie lire, per poi trovarsi oggi a dover rifinanziare un debito stellare con una capitalizzazione di appena 350 milioni di euro?
Com’è possibile che l’Unicredito, la più diversificata banca d’Europa, sia passata da 7 euro per azione a 0,7 euro in meno di due anni, per poi consolidarsi sotto i 2 €?
Come è potuto accadere che la Banca Carige, stimata ma piccola realtà domestica, abbia provato l’ebbrezza di capitalizzare di più di Morgan Stanley?
A mio avviso, probabilmente, lo si deve chiedere ad un mercato che in un decennio si è dimezzato, è raddoppiato per poi perdere, di nuovo, due terzi del suo valore e ripercorrere la china, ad oggi, con una performance dell’80% dai minimi.

Quello che ci dovrebbe sorprendere, od impressionarci maggiormente guardandosi indietro, è quanto sia aumentata la velocità e la turbolenza con cui succedono gli eventi.
Cioè, i cicli si sono accorciati terribilmente, le cosiddette “bolle speculative” si montano e si smontano in orizzonti temporali che superano la velocità di comprensione di una mente umana, forse ancora impreparata alla velocità e alla complessità del mondo globalizzato.
Nel 1998 l’Asia era il problema del mondo, oggi forse ne è il salvagente. Le banche hanno dominato la piazza con ritorni sul capitale stellari, processi di fusione inarrestabili, ma solo un anno fa hanno rischiato la bancarotta globale. Abbiamo celebrato Internet come la più grande rivoluzione di tutti i tempi, poi l’abbiamo buttata via, oggi scopriamo che era veramente così.
Ma allora ci dobbiamo chiedere: l’intera “comunità finanziaria”, ed anche noi, riusciamo tutti a valutare un fenomeno finanziario liberamente e con onestà intellettuale, magari immaginandone lo sviluppo in un orizzonte temporale medio-lungo? Sono ampiamente condivisi i vantaggi che tali opportunità, nel tempo, potrebbero offrire? A mio avviso la risposta può essere solo una: NO!
E questo ci porta ad un’altra domanda fondamentale: ma allora, tutti questi sedicenti esperti finanziari e tutte le società di rating (bella cagata e perdonate la licenziosità) quale REALE e misurabile valore creano alla massa di investitori, in particolar modo a quelli piccoli? A mio modesto avviso, anche in questo caso la risposta più logica è negativa. Ovvero: nessun tangibile valore: si vende il fumo, o meglio ancora, un incantesimo! E non è tutto, infatti… “In principio era la partecipazione agli utili”, ricordate bene questa frase, ci ritorneremo dopo.

Ancora più vertiginose sono state le quotazioni e le cancellazioni in avvicendamento sui listini a Milano, vere e proprie fughe dal mercato. Come mai accaduto nella centenaria storia di Piazza Affari. Titoli di straordinaria importanza hanno vissuto il loro status di società quotate per un lasso di tempo brevissimo in confronto al passato; si pensi a TIM, il principale operatore di telefonia mobile, o ad un marchio storico quale l’INA, il principale assicuratore vita domestico, o l’IMI tra le grandi società finanziarie domestiche. Sono scomparsi nomi illustri quali Ras, Alleanza e Fideuram (che forse ritorna, dopo il vergognoso impiccio Eurizon).

Ed ancora, tra il 1999 ed il 2002 abbiamo assistito al più grande processo di concentrazione bancaria mai avvenuto; dove, dopo l’aggregazione tra quelli che credevamo colossi nazionali quali Ambroveneto, Cariplo e Comit (da cui nasce BancaIntesa), nel 2004 si è aggiunge pure il SanPaoloImi-BancoNapoli.
Fra il 1995 ed il 1999, si quotano società di rilievo internazionale come: Enel e Eni, laddove, soprattutto nel primo caso, la quotazione è stata sinonimo di cambiamento eccezionale. Ma anche ad un prezzo decisamente troppo oneroso per il mercato stesso. A stigmatizzare questo processo di trasformazione, la Borsa stessa è stata privatizzata e ha cambiato assetto azionario.
Come interpretare questo fenomeno? Perché il delisting ha coinvolto solo aziende pienamente sane e che, nonostante la drammatica contingenza, mantengono ancora una loro leadership seppur con naturali difficoltà, data l’attuale situazione? Come mai proprio loro?
Perché società di prestigio internazionale come: CIGA, FIDEURAM, TIM, INA, Ducati, Sirti, Cremonini, Marazzi, Premuda (ma l’elenco è enorme, ricco di altri fiori all’occhiello); tutte aziende che rappresentano delle eccellenze, o quasi, nei loro rispettivi settori e nazioni, in particolar modo per il made in Italy. Dicevamo…. perché ne è stata decisa l’uscita dal mercato? Dove ricercare un’onesta spiegazione a questo preoccupante fenomeno?

Debbo dire che io ci ho pensato parecchio, ho cercato di smontare e riassemblare il mosaico più volte. E la mia riflessione finale non è mai cambiata. Sosteneva il caro A. C. Doyle (per bocca del suo più famoso personaggio letterario: S. Holmes, l’investigatore più logico mai esistito) che: “Una volta esclusi tutti i possibili scenari, ciò che rimane, per quanto improbabile, rappresenta la realtà” Orbene, mutuando questa filosofia, l’unica risposta che sono riuscito a darmi segue il seguente filo logico. Innanzitutto occorre richimare la frase che ho citato poc’anzi: “In principio era la partecipazione agli utili”, proprio questo è il punto di partenza. Una società sceglieva di quotarsi in Borsa per raccogliere risorse da investire, senza dover riccorrere ad accendere debiti con banche. In contropartita offriva la cessione di una quota della proprietà, unitamente alla partecipazione agli utili, sotto forma di dividendo. In genere, con un ritorno economico superiore ai tassi di interesse offerti dal mercato obbligazionario, un contesto rimasto immutato sino ai primissimi anni ’90.
Ma, negli anni successivi (1993-1996), il panorama cambia radicalmente; cambiano le regole, cambia la filosofia di approccio al mercato, nasce la “New economy” ed il business delle “dot.com”. In poche parole, il Mercato globale, collassa sotto le pesanti conseguenze di un’irreversibile avidità. Un mercato in cui sopravvive un solo principio: il “Profitto”, costi quel che costi. Nel frattempo la “Bolla” Internet esplode e l’emorragia di perdite dilaga; la prima di una serie infinita, che passa pure dal fatidico 11 Settembre, sino a culminare nella simbolica morte di un capro espiatorio identificato nella “Lemhan Brothers” e senza dimenticare: “Tango bonds, Cirio, Parmalat” ecc, e vengo al punto.
In estrema sintesi, ciò che io ho dedotto è che: da oltre un decennio, in borsa, dominano i pirati della finanza, in borsa ci si quota per scaricare e condividere i debiti, piuttosto che gli utili, complice anche la diffusa tecnica delle “Chinase box”. In borsa, troppi risparmiatori entrano ed escono senza averne titolo o consapevolezza. In borsa, troppo spesso, ci si pone più per puro spirito di “Monkey business” piuttosto che per ricercare e cogliere reali opportunità di medio-lungo periodo, complice l’inadeguata, tendenziosa e conflittuale operatività degli intermediari autorizzati; a loro dire: sedicenti creatori di valore. Ma per loro stessi, aggiungerei.
Ora, detto questo, analizzando il nostro contesto economico-sociale e culturale e,considerando che:
·        Le migliori aziende se ne vanno dai listini;
·        Su circa 1.000.000 di SpA, solo un “nano gruppo” è quotato;
·        Tale micro-insieme è riconducibile a pochi gruppi industriali/familiari;
·        Milano, nel MSCW, conta come il 2 di picche,

E’ assolutamente necessario chiedersi: ha ancora senso considerare, la nostra, una borsa efficiente ed affidabile? Milano, ha diritto a considerarsi come “mercato” qualificato per il capitale di rischio?
Io, con estrema serenità, rispondo: NO, affatto. In finanza i numeri sono vangelo e, i numeri italiani, sono davvero deprimenti e talvolta sfiorano il ridicolo.
Per cui, onestamente, non saprei con quale coraggio immaginare di competere con altri mercati finanziari. La verità, a mio modesto parere, è là fuori, come recitava un famoso adagio di una fiction. Una verità da ricercare fuori si ma lontano da qui.

Infine, concludo ponendomi l’utima (ma non ultima) domanda: Come saranno i prossimi dieci anni?
Di sicuro gli equilibri geopolitici stanno cambiando a favore di un blocco di Paesi che possono vantare trend demografici favorevoli, flessibilità, grandi risorse territoriali e naturali. La finanza italiana, le società quotate dovranno sempre più adeguarsi al nuovo scenario in fieri. Minaccia, ma anche opportunità per chi saprà coglierla. Ma la psicologia dell’uomo è una costante: paura e avidità si alternano a tutte le latitudini.
Oggi il morale è ancora sotto i tacchi e tutto sembra grigio. Che sia ancora all’opera la stessa trappola di inizio millennio?

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